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La memoria di
tutti
concorso
per giovani
dai 6 ai 35 anni
IN COLLABORAZIONE CON
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L'articolo1G Ingenito Corinne | Mia nonna racconta
Mia nonna è nata nel 1922 a Nocera Inferiore e mi racconta che suo padre, il mio bisnonno, faceva il ferroviere: guidava la locomotiva, più precisamente era macchinista di manovre.
«Di sera si ritirava nero di carbone e mia madre, se aveva ospiti li invitava ad andarsene perché voleva dedicarsi solo a lui. D’inverno, sul luogo di lavoro, riceveva molti amici che avevano piacere di stare lì perché si riscaldavano, d’estate invece stava da solo. Io mi ritenevo una persona fortunata perché il sabato sera potevo recarmi al “Dopolavoro Ferroviario” dove assistevo alla proiezione dei film muti che rendevano piacevoli quelle serate: a quel tempo a Nocera non c’erano sale cinema-tografiche. Il 6 gennaio, sempre al dopolavoro ferroviario, era tradizione festeggiare la befana dei ferrovieri e io aspettavo questo giorno con trepidazione e ansia».
Il periodo in cui la nonna era giovinetta regnava il governo fascista che imponeva il sabato fascista ossia tutti i ragazzi e le ragazze dovevano indossare una divisa e dovevano dimo-strare, attraverso alcuni esercizi ginnici, la propria prestanza fisica. A molti non faceva piacere partecipare ma erano obbligati dal regime.
La nonna ricorda con più piacere quelle riunioni di più famiglie per conservare i pomodori.
«Era un lavoro e una festa. Si iniziava la mattina presto nei cortili, appena cominciava ad albeggiare ognuno era già intento al suo compito. Il lavoro era duro perché tutto era fatto a mano. Quando noi scendevamo in cortile, mia madre, a quei tempi non c’era la macchinetta elettrica, aveva già fatto un paio d’ore abbondanti di lavoro. Aveva già sciacquato i pomodori e messi a sgocciolare nelle cassette, lavato il basilico (‘a vasenecola), preparato le asticelle per spingere dentro quegli spicchi di pomodoro, che tagliati un po’ più grossi si inceppavano nel collo della bottiglia, passato a mano nel setaccio i pomodori per ricavarne il passato, di cui una buona porzione, salata con sale grosso, veniva messo al sole ad essiccare (costituiva il concentrato) mentre un’altra parte andava nelle bottiglie, ma solo quel tanto che serviva a riempire gli interstizi lasciati dagli spicchi di pomodoro, tagliato in due un bel po’ di pomodori già stesi al sole per l’essiccazione, poi sarebbero stati messi sott’olio in vasetti di vetro per l’inverno. Poi arrivavamo noi e si cominciava la “lavorazione vera e propria”. Una iniziava a tagliare i pomodori (san marzano) a spicchi: ogni pomodoro sei, otto spicchi, un’altra versava con il mestolo e l’imbuto, il passato nella bottiglia (ma solo due dita) e ci aggiungeva due o tre foglie di basilico, a seconda della grandezza. Le bottiglie così preparate passavano fra le mani delle altre che le riempivano con gli spicchi di pomodoro già tagliati. Una volta piene si riponevano da una parte, all’ombra, per essere poi tappate alla fine.
Il lavoro della tappatura era il più faticoso e il più delicato, perché da questa operazione e dalla perizia con cui si mettevano nei bidoni poi a cuocere, dipendeva la buona riuscita della provvista. La tappatura avveniva con tappi di sughero, ce n’erano di due tipi a seconda della grandezza dell’imboccatura della bottiglia. Si usavano quelli a forma quadrata per le bottiglie a “bocca più larga” e quelli a tronco di cono ( a córa ‘e sórece) per quelle a “bocca più stret-ta”. Prima di iniziare l’operazione, si bagnavano i sugheri in una soluzione fatta di semi e succo di pomodoro con l’aggiunta di un filino di olio per permettere al tappo di scivolare più facilmente nella macchinetta, anch’essa di legno, e poi a colpi di martello sullo stantuffo per far scivolare il tappo nel collo della bottiglia. Per attutire i colpi ed evitare la possibile rottura di una bottiglia, che costava tanta fatica ma anche tanti soldi, si poneva la bottiglia sopra una pietra di tufo e sulla pietra uno straccio di sacco piegato più volte, poi la bottiglia veniva stretta fra le ginocchia. Alla fine, mentre tuo nonno, seduto su una cassetta di legno, tappava le bottiglie, io e le altre donne preparavamo le pietre di tufo sulle quali sistemare i bidoni nei quali far cuocere le bottiglie.
Finita la tappatura c’era ancora da fare la legatura con lo spago per evitare che durante la cottura, la pressione che si veniva a creare all’interno della bottiglia facesse schizzare il tappo e perdere tutto il contenuto. Dalla legatura dipendeva la buona riuscita di tutto il lavoro e quindi della provvista. Anche questa era un’operazione da uomini che faceva tuo nonno con gli altri uomini del cortile.
Finalmente ci si apprestava a posizionare le bottiglie nel bidone, operazione questa accolta da tutti con soddisfazione e con piacere, perché segnava la fine della giornata lavorativa. Tuo nonno deponeva con molta cautela le bottiglie che io gli porgevo nel bidone sistemandole l’una accanto all’altra tutte in fila per non lasciare spazi vuoti che avrebbero potuto, durante la bollitura far vibrare e rompere le bottiglie, allo stesso scopo, terminata una fila interponeva o della paglia o una pezza di sacco; infine si riempiva il bidone di acqua, si utilizzava quella stessa che era servita per lavare i pomodori, fino a sovrastare l’ultima fila di bottiglie anch’esse ricoperte di sacco.
Prima di accendere il fuoco, tuo nonno si segnava con il segno della croce e poi accendeva. Si aggiungeva legna fino al momento della bollitura dopo di che si toglievano i rami grossi e si lasciava solo la brace per permettere un bollo lento e graduale.
Si era fatta sera, c’era tanta stanchezza ma era piacevole sedersi intorno alla brace e mangiare le patate che si cuocevano sotto la cenere calda. Qualcuno arrostiva i peperoni, altri mettevano anche le uova che, come le patate, arrostivano sotto la cenere. Trascorsa un’ora di bollitura si sbrasava il fuoco e si andava tutti a lavarsi per andare a letto. Al mattino seguente ci attendeva un’altra giornata di duro lavoro».
Un’altra usanza popolare era la produzione della sugna, il condimento più usato in cucina. La nonna dice che più il maiale era grasso (un palmo di grasso) più era buono. Fra le tradizioni civili, invece, ricorda la festa patronale: a quei tempi la festa era intesa in modo più religioso. Tutte le donne partecipavano alla processione che attraversava tutte le vie del paese. Lo stesso giorno si compravano nel piazzale antistante la sede vescovile i maialini da allevare.
Ma, indipendentemente da tutte le tradizioni, la nonna racconta che alcune faccende di casa si svolgevano secondo certe cadenze e con dei riti propri. Ad esempio il bucato (‘a culata) non si lavava in casa ma nei cortili. ‘A culata si faceva per i capi grossi come le lenzuola.
«Alcuni non avevano l’acqua in casa perciò dovevano prenderla al pozzo e poi si versava in grandi recipienti di legno. In questo recipiente veniva immersa la biancheria che veniva strofinata con il sapone molle (il più delle volte questo sapone veniva prodotto in casa) su una tavola di legno e poi si faceva riposare per una notte. Il giorno successivo venivano sciacquate e poi si adagiavano in un altro recipiente di legno (cupiello). Su di essa veniva poggiato un telo a trama stretta (‘o cennerale) e su questi veniva gettato della cenere, limone e alloro per conferire al bucato una delicata profumazione, e dell’acqua bollente. L’acqua passando attraverso questi materiali si impregnava delle loro sostanze e si depositava, filtrata, nel cu-piello. Quell’acqua la chiamavamo acqua forte o liscivia. La biancheria riposava ancora un’al-tra notte nella liscivia e la mattina successiva di nuovo strofinata e risciacquata più volte. Infine più donne procedevamo all’operazione di strizzatura delle lenzuola che venivano stese nel cortile su alcune corde sostenute al centro da un’asta biforcuta (furcina). La cura continua-va perché noi donne con le mani tiravamo il tessuto per stirarlo meglio dopo».
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