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L'articolo

Decalogo dello scrittore   
8 giugno 2001

LE IDEE

di SUSAN SONTAG


CI preoccupiamo delle parole, noi scrittori. Le parole significano. Le parole indicano. Sono frecce. Frecce conficcate nella ruvida pelle della realtà. E più sono astratte e imponenti più finiscono per assomigliare a stanze o a gallerie. Possono espandersi o franare. Possono riempirsi di cattivi odori. Spesso ci fanno ripensare ad altre stanze, in cui ci piacerebbe vivere o ci sembra di vivere già. L'arte o la saggezza necessarie per abitare certi spazi possono andare perdute. E alla fine quelle cubature di intenzioni mentali che non sappiamo più abitare verranno abbandonate, sprangate, chiuse per sempre.
Che cosa intendiamo, per esempio, con la parola "pace"? Intendiamo forse assenza di conflitto? Oblio? Perdono? O forse una grande stanchezza, un esaurimento, il prosciugamento di ogni rancore? A me pare che per la maggior parte della gente pace significhi vittoria. La vittoria del proprio schieramento. Per loro vuol dire questo, mentre per gli altri significa sconfitta.

Se prende piede l'idea che la pace, per quanto in teoria desiderabile, comporti un'inaccettabile rinuncia a rivendicazioni legittime, il corso d'azione più plausibile sarà allora quello della guerra, anche se praticata in forma non totale. I richiami alla pace saranno considerati, se non fraudolenti, sicuramente prematuri. E la pace diviene uno spazio che non si sa più abitare. In cui bisogna reinsediarsi. Da ricolonizzare... E cosa intendiamo con la parola "onore"? Considerato come un impegnativo codice di condotta personale, l'onore sembra appartenere a tempi lontani. Ma l'abitudine di conferire onorificenze - di lusingare noi stessi e gli altri - continua ininterrotta. Conferire un'onorificenza significa affermare principi che si ritengono condivisi. Accettarla vuol dire credere, seppure per un momento, di averla meritata. L'onore di un premio aumenta - così come la capacità di conferirlo - in virtù delle persone che si è scelto di onorare negli anni precedenti. Proviamo a considerare, sotto questa luce, il Premio Gerusalemme, un premio dal nome così impegnativo, che, nella sua storia relativamente breve, è stato assegnato ad alcuni dei migliori scrittori della seconda metà del ventesimo secolo. Benché si tratti con ogni evidenza di un premio letterario, non si chiama Premio Gerusalemme per la letteratura ma Premio Gerusalemme per la libertà dell'individuo nella società. E' proprio vero che tutti gli scrittori a cui è stato assegnato hanno difeso la libertà dell'individuo nella società? E' questo ciò che hanno - che abbiamo, devo dire adesso - in comune? (...) Gli scrittori - vale a dire i membri della comunità della letteratura - sono emblemi della continuità (e della necessità) della visione individuale. (...) Tutte le qualità che rendono pregevole o ammirevole uno scrittore possono essere individuate nella singolarità della sua voce. Ma tale singolarità, coltivata in privato e frutto di un lungo apprendistato alla riflessione e alla solitudine, viene costantemente messa alla prova dal ruolo sociale che gli scrittori si sentono chiamati a svolgere. Non contesto il diritto degli scrittori a impegnarsi in dibattiti su questioni pubbliche. Né voglio sostenere che tali attività allontanino chi scrive da quello spazio interiore, solitario e eccentrico, in cui si fa letteratura. Ma una cosa è impegnarsi volontariamente, spinti dagli imperativi della coscienza o dei propri interessi, in un dibattito o in un'azione pubblica. Un'altra è produrre opinioni su commissione. Uno scrittore non dovrebbe essere una macchina produttrice di opinioni. Come ha affermato un poeta nero del mio paese, rimproverato da altri afro-americani di non scrivere poesie sugli oltraggi del razzismo, "Uno scrittore non è un jukebox". Il primo compito di uno scrittore è dire la verità, non avere delle opinioni .... e rifiutarsi di diventare complice di menzogne e disinformazione. La letteratura è la casa della sfumatura e della contraddizione che si oppone alle voci della semplificazione. Compito dello scrittore è rendere meno credibile chi saccheggia il pensiero. Compito dello scrittore è farci vedere il mondo così com'è, pieno di parti e esperienze e rivendicazioni diverse. Compito dello scrittore è raffigurare le realtà: le realtà ripugnanti, le realtà estatiche. E l'essenza della saggezza offertaci dalla letteratura (dalla pluralità delle conquiste della letteratura) sta nell'aiutarci a comprendere che qualunque cosa accada, succede sempre qualcos'altro. Io sono ossessionata da quel "qualcos'altro". Sono ossessionata dal conflitto tra i diritti e i valori che mi stanno a cuore. Per esempio dal fatto che - a volte - la verità non conduce alla giustizia. Che - a volte - la ricerca della giustizia può comportare la soppressione di una buona dose di verità. Molti dei più notevoli scrittori del XX secolo, nell'esercitare la loro funzione di voce pubblica, sono stati complici di una soppressione della verità intesa a promuovere quelle che ritenevano (e in molti casi erano) giuste cause. La mia opinione è che, se proprio devo scegliere tra verità e giustizia scelgo la verità. Naturalmente credo nell'agire secondo giustizia. Ma è poi lo scrittore colui che agisce? Parlare, che è quel che sto facendo adesso; scrivere, che è quel che mi dà un qualche diritto a questo incomparabile premio; e essere, essere una persona che crede negli atti di solidarietà verso gli altri, sono tre cose ben diverse. Come ha osservato una volta Roland Barthes: "... chi parla non è colui che scrive, e chi scrive non è colui che è". Naturalmente ho anch'io delle opinioni, opinioni politiche, alcune delle quali si basano su letture, discussioni e riflessioni, ma non su esperienze di prima mano. Permettetemi di condividerne due con voi - opinioni piuttosto prevedibili, alla luce delle posizioni pubbliche che ho assunto su questioni di cui avevo conoscenza diretta. Credo che la dottrina della responsabilità collettiva, a cui si fa ricorso per legittimare forme di punizione collettiva, non sia mai giustificata, né militarmente né eticamente. Mi riferisco all'uso di una sproporzionata potenza di fuoco contro le popolazioni civili, alla demolizione delle loro case e alla distruzione dei loro frutteti e dei loro uliveti, alla sottrazione dei mezzi di sussistenza e del diritto al lavoro, dell'istruzione, dei servizi sanitari, del libero accesso alle città e alle comunità vicine... tutto ciò inteso come punizione per attività militari ostili che si svolgono in luoghi più o meno vicini a quelli abitati da tali popolazioni. Credo anche che qui non potrà mai esserci pace fino a quando non si porrà freno all'insediamento di comunità israeliane nei Territori, per poi procedere - al più presto - allo smantellamento di tali insediamenti e al ritiro delle unità militari acquartierate lì per proteggerli. Sono certa che le opinioni che ho espresso siano condivise da molte delle persone presenti in questa sala. E ho il sospetto di sfondare una porta aperta. Ma è in quanto scrittrice che sostengo tali opinioni? Oppure da persona di coscienza che usa la posizione di scrittrice per aggiungere la propria voce a quella di chi sostiene le stesse cose? L'influenza che uno scrittore può esercitare è del tutto casuale. Non è altro, oggi, che un aspetto della cultura della celebrità. C'è un che di volgare nel diffondere opinioni su questioni di cui non si ha una profonda conoscenza diretta. Parlare di ciò che non si conosce, o si conosce superficialmente, significa semplicemente trasformarsi in mercanti di opinioni. Ne parlo, per ritornare all'inizio del mio discorso, come di una questione d'onore. L'onore della letteratura. Il progetto di costruzione di una voce individuale. Gli scrittori seri, i creatori di letteratura, non dovrebbero soltanto esprimersi in modi diversi da quelli utilizzati dal discorso egemonico dei mass media. Dovrebbero opporsi al diffuso chiacchiericcio dei telegiornali e dei talk show. Il problema dell'esprimere opinioni è che se ne resta intrappolati. Mentre ogni volta che uno scrittore agisce da scrittore vede sempre... qualcosa di più. Qualunque cosa accada, succede anche qualcos'altro. Se in quanto tale la letteratura incarna una forma di saggezza - e io ne sono convinta, e credo anche che tale saggezza sia alla radice dell'importanza che attribuiamo alla letteratura - lo fa dimostrando la natura molteplice dei nostri destini privati e collettivi. Ci ricorda che possono esserci contraddizioni, conflitti a volte irriducibili, tra i valori che più ci stanno a cuore. La saggezza della letteratura è del tutto antitetica alla formulazione di opinioni. "Su nessuna cosa la mia parola è definitiva", ha detto Henry James. Fornire opinioni, anche opinioni corrette - ogni volta che vengano richieste - svilisce quello che i romanzieri e i poeti fanno meglio, vale a dire, sostenere la riflessione, perseguire la complessità. L'informazione non potrà mai prendere il posto dell'illuminazione. Ma il requisito indispensabile perché uno scrittore possa esprimere opinioni pubbliche può apparire simile all'informazione, ma è qualcosa di più, vale a dire, la condizione di chi è informato: una conoscenza di prima mano concreta, specifica, dettagliata e storicamente articolata. (...) Un altro problema dell'esprimere opinioni. Sono strumenti che immobilizzano. Quello che gli scrittori fanno dovrebbe liberare, scuoterci. Aprire le porte alla compassione e a nuovi interessi. Ricordarci che potremmo aspirare a diventare diversi, e migliori, di come siamo. Ricordarci che possiamo cambiare. Come ha affermato il Cardinale Newman, "in un mondo superiore le cose sono diverse, ma quaggiù vivere significa cambiare, e la perfezione consiste nell'aver cambiato spesso". Cosa vuol dire per me la parola "perfezione"? Non cercherò di spiegarlo, mi limiterò a dire questo: la perfezione mi fa ridere. Non con cinismo, mi affretto ad aggiungere. Ma di gioia. Sono grata che mi sia stato offerto il Premio Gerusalemme. Lo accetto come un onore reso a tutti coloro che si dedicano all'impresa della letteratura. Lo accetto in omaggio a tutti gli scrittori e i lettori che in Israele e in Palestina si battono per creare una letteratura fatta di voci individuali e di molteplici verità. Accetto il premio in nome della pace e della riconciliazione tra comunità ferite e impaurite. Una pace necessaria. Concessioni e nuovi accordi necessari. Un necessario abbattimento degli stereotipi. Una necessaria prosecuzione del dialogo. Accetto il premio come un evento che rende onore, sopra ogni cosa, alla repubblica internazionale delle lettere. (traduzione di Paolo Dilonardo) 1

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