L’INTERVENTO.
DALLA CRONACA ALLE BATTAGLIE SOCIALI
Centri di
riabilitazione, c’è il rischio di chiusura
La storia
di Matteo Nadalini: quando l’handicap è l’abbandono delle istituzioni
LUIGI CELESTRE ANGRISANI
Ci sono fatti di cronaca che fanno male. Più degli altri. Come quello di Paola
Mantovani, 39 anni, e di suo figlio, Matteo Nadalini, 14 anni. Era la metà di
settembre. Nella villetta dei coniugi Nadalini, a Modena, avviene una strana
rapina con omicidio. Il padre è fuori. Quando torna trova la moglie legata
nella piscina e il figlio morto, soffocato. Matteo ha un forte handicap mentale
(è autistico). La madre dichiara di essere stata aggredita da due banditi con
accento straniero (albanesi, si dice): l’hanno legata e gettata nella piscina e
hanno ucciso il ragazzo fuggendo con una refurtiva che sarà trovata abbandonata
nel giardino. Sembra una delle solite drammatiche storie di balordi spietati
provenienti dall’est. Scatta lo scandalo, la rabbia, la richiesta di misure
speciali per la sicurezza dei cittadini.
La verità
Ma dopo un mese e cinque giorni la verità che viene a galla è di quelle che non
fanno prendere sonno: Matteo è stato ucciso dalla mamma. Le indagini fanno
emergere una situazione drammatica. «I genitori - dichiarano i carabinieri -
non accettavano un figlio autistico». I vicini testimoniano: «la mamma
picchiava il figlio e il figlio la madre, si sentivano le urla». Matteo non era
un bambino, pesava 74 chili e, viene raccontato, durante le sue crisi diventava
una furia. Era stato anche ricoverato in ospedale con l’elicottero per eccesso
di farmaci, probabilmente somministratigli per calmarlo. La verità completa
sull’omicidio deve essere ancora accertata e chi vorrà potrà seguirne gli
sviluppi sulle pagine di cronaca. Io invece vorrei portare l’episodio di Modena
fuori dalla cronaca. Commentandolo una psicoanalista ha detto: «spesso la
presenza di un figlio con handicap mentale serio blocca il tempo e immobilizza
le persone impedendo qualsiasi crescita vitale della famiglia. Allora nasce la
disperazione». Che a Modena è diventata tragedia. Nonostante una famiglia
agiata, una bella villetta con tanto di piscina, uno dei comuni più attrezzati
sul fronte dei servizi sociali.
Anche in quelle condizioni non è possibile, non è umano, non è civile lasciare
che un disabile grave pesi solo sulle spalle della famiglia.
Un ragazzo autistico ha bisogno di cure specialistiche, di essere al centro di
un processo educativo comportamentale che lo aiuti ogni giorno sulla base degli
studi medico - scientifici più avanzati. Perché l’handicap non è mai una
condizione stabile, può progredire o regredire. Per affrontarlo, per permettere
a chi ne soffre di progredire o di non regredire, esistono centri
specializzati, si chiamano centri di riabilitazione. Bene (anzi male); c’è il
rischio che nella nostra regione i centri di riabilitazione vengano chiusi. Che
invece di renderli sempre più avanzati, vengano trasformati in semplici centri
di residenza.
I problemi
E c’è il rischio che centinaia di disabili curati fino a ieri in centri di
riabilitazione dove si sono ambientati e magari hanno ottenuto eccellenti
risultati, vengano «deportati» altrove, per problemi burocratici.
Queste cose non le dico io: le dicono decine di consiglieri e capigruppo
regionali. Perché ci sono questi rischi? Perché a volte la burocrazia è molto
distante dalla vita reale.
Nascono così delibere della Regione che sembrano innocue e invece aprono strade
inquietanti dove a pagare saranno, manco a dirlo, i più deboli. Magari dei
disabili che vengono considerati «stabilizzati», ovvero per i quali non
varrebbe più la pena continuare la riabilitazione. Matteo, per capirci meglio,
era uno «stabilizzato».
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